Un’altra storia dell’Orcolàt

rubrica
contro il logorio della vita moderna

data
29 Apr 2016

I friulani di allora vivevano in modo totalmente diverso da ora: il lavoro occupava la maggior parte della giornata, ogni sudata moneta guadagnata veniva accantonata gelosamente, le sagre di paese finivano spesso in animate discussioni sull’ultima partita di pilote e non c’era dispiacere o gioia che non venissero sciacquati da più di qualche bicchier di vino

Di quei tempi, in quella parte del Friuli, viveva tra gli uomini anche un essere mitologico: l’orcolàt. Abitava in una grotta profonda, ai piedi del monte San Simeone, poco distante da dove oggi sta Bordano. Era grande, grosso e peloso, un caratteraccio, dispettoso e alle volte anche crudele. La tradizione lo dipinge insomma come un essere spregevole. Ma stravolgendo la radice del suo nome e unendo all’aspetto mostruoso (orco) la più innocente delle bevande (làt), mi piace immaginarlo piuttosto come un ingenuo, inconsapevole delle conseguenze delle sue azioni.

Sta di fatto che, ingenuo o no, i problemi di convivenza tra l’orcolàt e i friulani dell’epoca erano parecchi.

Per mantenere il suo peso-forma, mangiava in continuazione. Se era affamato seguiva le greggi all’alpeggio e si nascondeva sotto un burrone; quando qualche pecora si avventurava sul ciglio, lui allungava la mano per ghermirla e i pastori, rassegnati, tornavano a casa sempre con qualche capo di meno.

La sua educazione lasciava piuttosto a desiderare: i suoi starnuti erano talmente vigorosi che alle volte riuscivano a scoperchiare i granai (di mettere la mano davanti alla bocca non se ne parlava, ovviamente).

Si lavava solo quando scendeva la pioggia e se pioveva molto amava sedersi sul greto del Tagliamento, nei punti più stretti, per bloccare con la sua mole il corso del fiume e poter giocare con il lago che si formava a monte della sua pancia. Quando si alzava di scatto, però, erano guai: un’onda enorme invadeva il fiume a valle, rompendo gli argini e spazzando via coltivazioni e case per chilometri e chilometri.

 

Un giorno i paesani, furibondi per l’ennesima malefatta dell’orcolàt, si incontrarono in una taverna al fine di escogitare un piano che, una volta per tutte, li avrebbe potuti liberare dell’insopportabile vicino.

Si sprecarono molte parole – e ancor più damigiane – per trovare la soluzione all’annoso problema e verso sera, quando ogni ipotesi proposta era già stata bollata come inadeguata, dal fondo della stanza prese la parola Tite.

Di Tite non si poteva certo dire che fosse persona onesta (di sicuro non era ben visto da quelli che, contro di lui, avevano perso tutte le partite a carte mai giocate). Tite insomma era un baro … quasi di professione!

L’iniziale reticenza degli astanti svanì man mano che Tite, con calma, spiegava il suo piano e alla fine della sua esposizione tutti erano convinti e quasi entusiasti. L’indomani stesso si sarebbero cominciati i preparativi del grande piano.

Venne dunque il giorno e Tite partì con un carretto carico di botti di buon vino in direzione di Tolmezzo. Passato nei pressi della grotta dell’orcolàt, fu presto notato dal gigante, che gli si piazzò davanti, bloccandogli il passaggio: le botti non sarebbero andate oltre. Allora Tite propose una sfida: un rai di briscule. Se avesse vinto Tite sarebbe potuto proseguire verso Tolmezzo, se invece avesse vinto l’orco, non solo quest’ultimo si sarebbe preso le botti del carro ma l’intera riserva di vino del villaggio, che Tite stesso e i compaesani avrebbero portato direttamente nella sua grotta. L’orcolàt accettò senza esitazione (pensando che se avesse perso si sarebbe comunque impossessato delle botti del carro). I due cominciarono così a giocare.

Strano a dirsi ma, per la prima volta, Tite dovette barare per riuscire a perdere una partita a briscola.

L’orcolàt fu così entusiasta della vittoria che si scolò seduta stante tutte il vino dalle botti del carro, mentre Tite, come promesso, tornò di lì a poco con i compaesani portando tutto il vino del villaggio e stipando le botti sul fondo alla caverna. 

Quando ebbero concluso l’impresa, l’orcolàt scese appunto nella sua grotta e di fronte a tanta abbondanza non riuscì proprio a resistere: continuò a bere fino allo svenimento. 

Gli uomini approfittando del momento (che stavano attendendo), estrassero dai loro carri i badili e lavorarono alacremente per chiudere l’ingresso della caverna e intrappolandovi l’orco all’interno.

Ancora oggi, il gigante si trova laggiù e quando pensa all’inganno di Tite pesta i piedi per la rabbia e batte i pugni sul tavolo. Del suo sfogo, quello che possiamo sentire quassù è un forte boato e la terra che trema. Ma poi passa tutto: l’orcolàt beve un bicchiere di vino e si rimette a dormire.

 

Questa è la storia (rivisitata) dell’orcolàt, una leggenda friulana nata per raccontare ai più piccoli, in maniera colorita, un evento così dirompente e inaspettato come il terremoto. 

Il racconto vuole che la caverna del gigante si trovi sotto il monte San Simeone, da dove storicamente si pensa si sia propagato il sisma del 1976. La collocazione dell’epicentro è stata a lungo dibattuta e le ricerche odierne, basate su modelli dettagliati, spostano l’origine del terremoto più a est, nel gruppo del monte Chiampon nei pressi di Lusevera. 

 

Comunque sia, ovunque si trovi l’orcolàt ora, noi che viviamo qui dove le vicende narrate “si sono svolte”, non possiamo far altro che augurarci che le botti stipate sul fondo della caverna siano state parecchie e che inebriato dal vino l’orcolàt trimanga sopito il più a lungo possibile.