Una bella storia di contrabbando
Il rapporto “Fighting illicit wildlife trafficking a consultation with governments”, presentato all’ ONU, mette inoltre in luce come gran parte di questo commercio sia oramai gestito da reti criminali sofisticate con un respiro internazionale e come i profitti derivanti dalla vendita di specie animali e vegetali non autorizzate siano utilizzati per l’acquisto di armi, per finanziare le guerre civili e il terrorismo.
Di fronte a questo triste scenario, dove l’uomo riesce per l’ennesima volta a far emergere la sua brutalità e la sua macanza di compassione nei confronti della vita, vorrei raccontarvi una storia felice (forse l’unica) legata al contrabbando di animali protetti, che in una certa parte riguarda anche il Friuli.
Il protagonista di questa storia è lo stambecco alpino (Capra ibex). Ma prima c’è bisogno di un piccolo preambolo che spieghi la storia biogeografica di questo animale.
Gli antenati dello stambecco hanno origini asiatiche, in più riprese si sono spostarti verso territori più a ovest, diversificandosi in base alle condizioni climatiche e ambientali incontrate. I resti fossili più antichi della specie stambecco, come lo conosciamo oggi, risalgono al periodo glaciale: in tale epoca questi animali raggiunsero la loro massima espansione. In Italia la sua distribuzione arrivava fino alla Basilicata e alla Puglia e forse anche alla Sardegna. Poi, con la fine dell’ultima glaciazione il suo areale cominciò a contrarsi. Fortemente legato ad ambienti senza copertura boschiva, con importanti sbalzi di temperatura e grande presenza di affiorameneti rocciosi, lo stambecco si trovò a dover salire di quota man mano che i ghiacci si ritiravano. È definibile quindi come una specie glaciers followers, un cosiddetto relitto glaciale (senza offesa ovviamente). Finì per occupare tutto l’arco alpino, ma anche se costretto in cima ai monti dalle sue esigenze ecologiche, lo stambecco non se la stava cavando poi male se l’uomo, come sempre, non ci avesse messo becco.
Questo animale per sua natura non mostra particolare diffidenza nei confronti della nostra specie, forse perché sicuro delle sue incredibili doti di arrampicatore (a tal proposito vi consiglio di andare a vedere le impressionanti immagini degli stambecchi che si arrampicano in cerca di sale lungo le pareti verticali della diga del Cingino, in Piemonte). Questa sua poca diffidenza lo ha reso da sempre un facile bersaglio per la caccia, sia a scopo alimentare che per il commercio delle pelli. In epoca medievale, a queste motivazioni si aggiunsero anche delle presunte proprietà terapeutiche della polvere ottenuta dalle corna, che, devo dire con poca originalità, si pensava potessero aumentare la potenza sessuale del maschio umano. Nell’Ottocento poi, lo stambecco era considerato un dispensario ambulante: il sangue era utilizzato come rimedio per i calcoli, dal suo stomaco si ricavavano presunti rimedi contro il cancro e c’era chi lo seguiva nella speranza di raccogliere delle feci, utilizzate (ho deciso di non approfondire in che modo…) per la cura della tubercolosi. Tra una cosa e l’altra, già alla fine del XVIII secolo, lo stambecco poteva considerarsi estinto in Austria e in Slovenia. Nella seconda metà del XIX secolo era estinto ovunque a eccezione di un nucleo di 100 esemplari presente nel Gran Paradiso. Qui riuscì incredibilmente a sopravvivere grazie alle misure di protezione imposte dai Savoia, che volevano arrogarsi il diritto esclusivo sulla specie. Dichiararono nel 1856 queste montagne riserva di caccia privata, arrivando anche a creare un corpo di guardie specializzate che vigilasse su questi animali supersititi. Il regime di protezione accordato alla specie contribuì in maniera determinante all’incremento numerico della popolazione, tant’è che cominciò a riprendersi e questo attirò delle inaspettate attenzioni.
Mi immagino che l’avventura sia iniziata un po’ così: in una fresca sera di primavera, un medico, un albergatore e un ricco mecenate, tutti svizzeri e appassionati di natura, si incontrarono in una baita tra le montagne del San Gallo davanti ad una birra. Tra un discorso di montagna e l’altro nacque un’idea: organizzare una spedizione segreta per trafugare dal Gran Paradiso dei capretti di stambecco, riportarli nelle Alpi svizzere e ricreare nel Parco Nazionale Peter e Paul una nuova popolazione di questi bovidi. Dai documenti conosciamo la data precisa in cui il primo atto di questo piano venne messo in scena (ce ne furono altri, in seguito): il 6 giugno 1906. In quella notte un bracconiere, lautamente pagato (la cifra pattuita era di 800 franchi per capo), percorse le montagne tra la Svizzera e l’Italia e riuscì a catturare tre giovani animali. Il Consiglio Federale (il governo elvetico) all’inizio si limitò a coprire l’azione illecita ma in seguito cominciò addirittura a finanziare lui stesso i raid. I capretti rapiti vennero allevati a mano in una casera sperduta tra i monti e immessi in natura in età adulta. Qui si riambientarono perfettamente e cominciarono da subito a riprodursi. Grazie a questo ratto, oggi, nella sola Svizzera vivono più di 16.000 stambecchi, quando su tutto l’arco alpino se ne contano circa 40.000.
La storia è curiosa perché 100 anni dopo, nel 2006, in Svizzera si è voluto festeggiare il ritorno dello stambecco e, con un atto che ha del riparatore, in occasione di questa ricorrenza, il governo elvetico ha simbolicamnete restituito alcuni esemplari all’Italia. Nel comunicato ufficiale che delibera questo scambio sono riportate queste parole: “Gli stambecchi furono trafugati con il consenso delle alte autorità elevtiche e in considerazione del fatto che l’importazione non avvenne nel rispetto della legalità, la Svizzera ha inteso cogliere questo anniversario come occasione per esprimere la sua gratitudine restituendo, a titolo simbolico, alcuni stambecchi all’Italia”. Di questi stambecchi donati, 14 furono liberati nelle Dolomiti Friulane e andarono a rimpinguare le fila della colonia madre già presente, composta da esemplari discendenti da un primo nucleo proveniente dal Gran Sasso liberato negli anni ’80 e in seguito da altri provenienti dal Parco delle Alpi Marittime di Cuneo. Anche gli animali presenti sul Monte Canin, nel Parco delle Prealpi Giulie, sono stati reintrodotti a più riprese.
Oggi però uno dei maggiori rischi per queste popolazioni sono le epidemie, che possono colpire con estrema virulenza a causa della limitata varietà genetica di questi animali (i vari gruppi sparsi un po’ ovunque sulle Alpi sono tutti costituiti a partire da reintroduzioni di poche decine di esemplari). Ed è proprio un’epidemia di rogna sarcoptica che recentemente sta causando una forte contrazione numerica della popolazione di stambecco delle Alpi orientali, particolarmente grave nelle Prealpi Giulie. La capacità di resistere a questa malattia è in gran parte determinate geneticamente ed è per questo che gli effetti su piccole colonie a bassa diversità genetica risultano particolarmente dirompenti.
Occorreranno forse nuovi ratti (questa volta legali) per riuscire a ridare nuovo slancio alle varie popolazioni di stambecco presenti su tutto l’arco alpino. Il mio augurio è che questa sia fino in fondo una storia a lieto fine!