Sovrappopolazione: ci diamo una mossa o facciamo conversazione?
Ora, non è che esattamente mi voglia rimangiare quello che ho scritto (anche se non ci sarebbe nulla di male, se continuando ad approfondire un argomento si arriva a nuove conclusioni), però un po’ di tempo fa ho letto l’articolo di un giornalista che si occupa di questioni ambientali e che mi ha fatto parzialmente ricredere (1).
Per cominciare, un grafico che trovo estremamente interessante è questo che David Roberts mette all’inizio della sua riflessione (2). E anche noi facciamo lo stesso.
Mi pare che vi siano dentro un mucchio di cose su cui riflettere. Intanto ci dice che non è vero che è “sempre la stessa vecchia storia”. Per cercare di tenere sedati ardori giovanili e afflati rivoluzionari, da sempre i fautori della conservazione ci raccontano che è sempre stato così. Ci dicono: voi credete che il vostro “adesso” sia differente, che le cose siano diverse oggi da com’erano 50 o 100 anni fa, ma invece è solo il vostro punto di vista che è differente; le cose son sempre uguali. Ogni generazione, ci dicono, immagina che il proprio presente sia diverso (nel bene o nel male) da quello dei padri. È sempre la stessa vecchia storia, figlio (Cat Stevens, insomma).
Ma non è così. Dall’inizio della storia della nostra specie, fino a circa il XVIII secolo, si vede dal grafico che la crescita della popolazione (e con lei tantissime cose … forse OGNI cosa) ha seguito un’evoluzione lenta, costante. Poi tutto esplode. Abbiamo cominciato a usare prima il vapore e poi i combustibili fossili, la plastica, e via via via, sempre di più, sempre di più. E di pari passo con l’esplosione delle nuove tecnologie esplode anche il numero degli umani che popolano la Terra. Gli studiosi fanno partire l’Antropocene, l’Era dell’uomo, verso gli anni 50 del Novecento. Indubbiamente in quel momento la curva ha subito un’ulteriore impennata, ma la curva ha iniziato a cambiare il suo andamento nel 700. Discuteranno in futuro, magari, da quando far iniziare l’Antropocene, se davvero quest’epoca avrà quel nome, ma guardando i dati alla base di questo grafico a me sembra si possa far partire tutto dal Secolo dei Lumi (3).
Allo stesso modo ritengo (non lo dice il grafico, ma mi pare abbastanza evidente e in qualche modo dall’andamento descritto questa cosa deriva) che questo preciso momento storico, in cui siamo in procinto di suicidarci come specie portando con noi gran parte della vita sul pianeta, sia “diverso” da qualunque altro momento precedente della storia umana. Quindi: “sempre la stessa vecchia storia” proprio no, cari signori.
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Ma torniamo alla sovrappopolazione e all’articolo di Roberts. Non è, dunque, che la crescita esponenziale degli esemplari di Homo sapiens sul pianeta non sia un fattore critico e che non abbia fondamentale impatto sul deterioramento forse definitivo dell’ambiente e quindi della vita nel suo complesso. Il punto è invece che quando iniziamo a parlare di sovrappopolazione, in breve tempo finiscono per entrare nel discorso, anche senza volerlo, delle questioni alquanto spiacevoli: razzismo, xenofobia, eugenetica addirittura. Vi sono stati non pochi esempi, in tanti decenni di movimenti green, di ambientalismo di destra se non addirittura di “nazisti verdi”. Il discorso sulla sovrappopolazione è un oggetto estremamente “difficile da maneggiare”.
Roberts suggerisce invece un altro modo, per muoverci in maniera più efficace e senza procedere sul filo del rasoio del razzismo e dell’imbarazzo. In sostanza propone di occuparsi della pratica invece che delle chiacchiere, pensando di più ai risultati e meno alla teoria. E suggerisce di farlo ponendo la nostra attenzione su un paio di temi concreti, a suo dire forieri di cambiamento rispetto al problema del “siamo in troppi”.
La sovrappopolazione è una questione di numeri, prima di tutto. Più abitanti significa più consumatori e maggiori emissioni; la correlazione è quasi diretta. Dal momento che il maggior numero di nati viene dai paesi in via di sviluppo, la questione diventa allora “controllo della natalità nei paesi in via di sviluppo”. La soluzione a questo specifico problema la conosciamo già e si chiama “pianificazione familiare“. E a sua volta il modo più efficace per operare un’efficace pianificazione familiare, per fare in modo che le donne abbiano solo i figli che scelgono di avere, è anch’esso conosciuto, e si chiama “educazione”. Uno studio del 2016 del famoso ambientalista Paul Hawken (4) identifica proprio questi punti come quelli che potrebbero avere un maggiore impatto potenziale (“Una combinazione di educazione femminile e pianificazione familiare, insieme potrebbero ridurre 120 gigaton di CO2-equivalente entro il 2050; più di tutta la possibile energia eolica in mare e continentale combinata – che conta 99 gigaton”). E conclude: “La prossima volta che vi troverete a un evento ambientalista, invece di porre la domanda sulla ‘crescita della popolazione’, chiedete qualcosa sull’ ‘educazione femminile’ ”.
Il secondo spunto di riflessione che propone Roberts riguarda la disparità nell’impatto inquinante. Non tutti inquinano allo stesso modo. Risulta ovvio che quelli che consumano di più sono gli occidentali, nei paesi ricchi. Sono loro, quindi, che prima di tutto dovrebbero fare meno figli. Ma guarda un po’: con il crescere del livello di benessere il numero di figli per ogni donna scende già per conto suo. Ma allora, continua, non vi sembra sensato pensare che se i paesi più poveri fossero meno poveri (e quindi se avessero una migliore educazione, maggiore welfare, ecc.) automaticamente farebbero meno figli? Allora forse, al prossimo evento ambientalista, potreste porre la domanda sulla ‘disuguaglianza economica’, piuttosto che accanirvi sulla teoria della sovrappopolazione.
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Mi è sembrato un ragionamento degno di interesse e di essere tenuto in considerazione. E che mi fa anche chiudere con una considerazione più generale: e se la finissimo di andare avanti a scannarci sulle teorie e sui principi (per quanto giusti e condivisibili, ma come mette in risalto Robert, spesso anche forieri di fraintendimenti e estremamente scivolosi) e ci concentrassimo di più sulle azioni concrete che possono portare a dei risultati?