Non ci penso nemmeno

autore
Stefano Dal Secco

rubrica
terzo pianeta

data
15 Feb 2019

Facciamo un esperimento. Prendiamo un topolino. Il roditore deve prendere la decisione se andare a destra o a sinistra. La ricompensa è, al solito, del cibo. E il cibo facciamo che lo mettiamo il 60% delle volte dalla parte a sinistra, e il 40% sulla destra. Il topo, in poco tempo, capirà che a sinistra si mangia di più, e andrà ogni volta da quella parte, con un successo, appunto, del 60%. Lo stesso faranno dei bambini molto piccoli, se posti di fronte a una scelta dello stesso tipo.

Se però sottoponiamo allo stesso esperimento degli studenti universitari, nella maggior parte dei casi cercheranno di comprendere il modello: perché certe volte il premio si trova a sinistra e altre a destra? Con che frequenza e secondo quali variabili il premio viene messo ora da una parte ora dall’altra? Faranno grandi calcoli e si perderanno in teorie di ogni tipo. Il risultato sarà, sempre, che il neonato o il topo avranno una performance migliore rispetto agli studenti universitari.

Bello e paradossale, vero? Messa così, piana piana, è una cosa che sembra dare supporto ai molti fautori della “idiocracy”. Ma aspettate. Seguitemi ancora un poco.

Lo psicologo tedesco Gerd Gigerenzer (Max Planck Institute for Human Development, a Berlino) dice che per prendere delle buone decisioni, in un mondo complesso come il nostro, devi essere abile nell’ignorare le informazioni. Cioè, appunto, è meglio pensare poco.

In questo senso ha fatto un altro esperimento, che riguardava un portafoglio di titoli azionari di borsa. Gigerenzer ha scoperto che la scelta dei titoli sui quali investire, fatta da persone qualunque, intervistate per la strada, aveva rendimenti migliori rispetto alle scelte fatte dagli esperti. I pedoni infatti sceglievano le aziende di cui avevano sentito parlare, punto e basta, senza tanti ragionamenti complessi. E, a livello statistico, le aziende grandi e famose funzionano meglio delle startup.

Ultimo esperimento, per oggi. È stato fatto alla Columbia Business School di New York. A un campione di persone con diversi livelli di scolarizzazione, di diversa estrazione sociale e diverse provenienze, è stato chiesto di prevedere i risultati di svariati tipi di “match”, che spaziavano dalla politica, al clima, al vincitore di un reality televisivo. Ne è saltato fuori (ormai lo riuscite a indovinare) che coloro che hanno riposto “a sentimento” hanno fatto le previsioni migliori rispetto a quelli che ci hanno ragionato sù a lungo.

Tuttavia questa considerazione valeva solo se i partecipanti avevano già delle conoscenze riguardo al settore in questione (avevano seguito i reality, si interessavano di politica, eccetera).

Eccolo, il punto: “meglio pensare poco” non significa affatto “ignorante è bello”, come sembra andare di moda di questi tempi. Tutt’altro. Significa che, una volta conosciuta una tecnica o un certo argomento, occorre dimenticarsene.

Leggendo di queste ricerche ho avuto un’epifania. Quando da ragazzo scrivevo che per vivere bene bisogna riuscire a fare il surf, sopra la vita, e chi leggeva non capiva bene, era proprio a questo che mi stavo riferendo. Non dicevo solo che ci vuole “leggerezza” (avevo appena letto le Lezioni americane di Calvino). Volevo dire che non bisogna “pensare troppo”, che bisogna “sentire” più che “pensare” (leggevo anche tanto Simenon-Maigret, che diceva proprio “Io non penso, non penso affatto”; cioè non si risolvono i casi con il ragionamento, ma “annusando” le scene del delitto e i paesaggi sociali degli indiziati).

In questi giorni di “orgoglio ignorante” però bisogna fare attenzione a quel che si dice o si scrive. Quindi è opportuno specificare molto bene che non sto parlando di non-conoscenza ma bensì di oltre-la-conoscenza.

È una faccenda che vale per tutti, in qualunque ambito. Vale per un pianista, che, ovviamente, molto presto si dimentica quale tasto del pianoforte corrisponde al SOL e quale al SI-bemolle, e dopo ancora un po’, eseguendo una sonata, si dimentica anche la sequenza delle note e degli accordi. Lo sa e basta, e tutto il suo essere sta facendo tutt’altro, mentre suona. Tutto il suo essere sta sentendo, sta ri-suonando.

Bob Dylan, ricordando malinconicamente la sua giovanile capacità di scrivere canzoni senza metterci nemmeno tanto impegno, ha descritto la creazione di “Like a Rolling Stone” come “un pezzo di vomito lungo 20 pagine”. Un fatto che non ha impedito a quella canzone di essere votata la migliore di tutti i tempi.

TUtt’altro ambito. Nella semifinale degli US Open del 2011, Roger Federer serviva per un match-point contro Djokovic, dopo quattro ore di partita. Djokovic era là in fondo, apparentemente rassegnato. Federer gli spara una cannonata sul dritto e Djokovic risponde, come nulla fosse, quasi con distrazione, sulla destra di Federer, in quello che McEnroe ha definito “uno dei migliori colpi di tutti i tempi”. Poi Djokovic vincerà la partita.

Un colpo di fortuna? Djokovic ha detto in conferenza stampa: “Tendo a fare così, nei match-point”. Non si tratta di un colpo di fortuna, si tratta di svuotare la mente e lasciar fare tutto al braccio, e all’esperienza. “Non pensare” vuol dire essere in grado di applicare i tanti anni di apprendimento proprio nel momento cruciale, rimuovendo il proprio io-pensante dall’equazione.

Il pensiero può essere una faccenda negativa, per noi umani. Quando talloniamo troppo da vicino i nostri pensieri, possiamo perdere l’orientamento, perché le nostre “chiacchiere interiori” offuscano le nostre decisioni.

Mi piaceva, questa cosa qui. Mi sembrava interessante. Tuttavia, ora che l’ho scritta, mi vien da pensare che qui, oggi, mentre si continuano a tagliare fondi alla cultura, alla scuola, alla ricerca … forse più che riflettere sulle dinamiche mentali dei geni, più che sapere a cosa pensava Benedetti Michelangeli mentre suonava Chopin al piano, basterebbe anche solo che la gente si impegnasse a pigiare i tasti del Bontempi con le prime otto note di “Fra Martino”. Sarebbe già un grande passo in avanti per l’umanità.