Fallire con stile
"serie deficienze"
Né carne né pesce
Ho cercato nei mesi scorsi di approndire un po’ com’è che noi uomini e donne umani ci troviamo in questa terra di nessuno, né carne né pesce: per molti versi utilizziamo ancora meccanismi psicologici e comportamenti legati alla nostra lunga permanenza nella savana dell’Africa Orientale, mentre poi di fatto abitiamo quasi tutti in un ambiente fisico e in un contesto sociale che con quel periodo della nostra storia evolutiva non ha più nulla a che fare.
C’è un esempio che mi piace molto e che mi pare renda bene il senso di questo stato di cose, oltre a essere una delle storie evolutive più semplici e più studiate. Il genere Homo inizia a staccarsi dalla linea evolutiva di gorilla e scimpanzé alcuni milioni di anni fa (diciamo 6 milioni, anche se non c’è molto accordo tra gli studiosi). La specie Homo sapiens (noi), secondo le ultime scoperte nasce invece 300.000 anni fa (anche questo numero cambia continuamente, con le nuove ricerche). Per i primi 290.000 anni (per il 97% della nostra storia evolutiva, quindi) siamo stati cacciatori-raccoglitori e durante questo periodo, per “latte” si intendeva quello con cui la madre nutriva i figli prima dello svezzamento. Poi, 10.000 anni fa (inizio del neolitico), iniziamo a usare il latte animale come alimento (nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, uscita dall’Africa, eccetera). Fino a quel momento, gli adulti umani erano intolleranti al lattosio (insomma, se bevevano del latte dovevano correre alla latrina del villaggio). Da allora, in alcune aree che si sono maggiormente legate alla pastorizia, iniziano a presentarsi delle mutazioni (negli europei si tratta di un singolo gene, localizzato sul cromosoma 2). Queste mutazioni permettono la cosiddetta “persistenza della lattasi” (la lattasi è un enzima che metabolizza il lattosio scindendolo in zuccheri semplici e perciò assimilabili). Insomma, niente più corsa alle latrine, con questa mutazione vincente. Il processo perciò è “partito” 10.000 anni fa (ma solo da 3.000 anni circa ha iniziato ad affermarsi) e oggi la percentuale di tolleranza al lattosio negli adulti di Homo sapiens va dal 90% del Nord Europa al 5% della Cina.
Torniamo allora dall’esempio al quadro generale. Per circa 250.000 noi abbiamo fatto sempre le stesse cose, nello stesso modo e più o meno negli stessi luoghi. Poi abbiamo iniziato ad accelerare, abbiamo usato utensili di pietra, coltivato i campi e allevato gli animali, scoperto la ruota, forgiato i metalli. E poi sempre sempre più in fretta, la polvere da sparo, la stampa a caratteri mobili, la macchina a vapore, il telefono, la penicillina, i vaccini, i viaggi spaziali, internet … Ma tutta questa roba l’abbiamo fatta in un attimo, un battito di ciglia. Nulla. Tiriamo due conti. La scrittura? Forse 3000 anni. La zappa di ferro? Altrettanto. Un libro stampato? 600 anni. 200 anni fa, un colpo grosso: la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, e la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Per chiudere in bellezza, fino a 150 anni fa (Darwin) non capivamo un’acca dell’evoluzione, e fino a 100 (Einstein) della fisica (in realtà della fisica non ci capiamo niente neanche oggi).
Se la nostra specie fosse qui da un anno, da una decina di giorni avremmo iniziato a bere il latte, da meno di una settimana a scrivere, da 5 ore abbiamo fatto questo strano esperimento della “democrazia moderna” (liberté, eccetera).
Nell’articolo precedente di questa serie ho concluso dicendo che il problema nasce dalla nostra presunzione di sapere pensare e usare il linguaggio molto meglio di quanto invece, in effetti, sappiamo fare. In altri, ancora precedenti, dicevo che forse il nostro brancolare è in gran parte casuale e forse viviamo nel caos; che crediamo di fare delle scelte logiche e sensate, mentre proprio quelle scelte ci stanno portando sull’orlo dell’abisso; che l’eccessiva fiducia nella nostra “spettacolare singolarità” fa quasi solo danni; che pensiamo che la grande libertà che ci siamo costruiti sia un vantaggio e invece in questo grande mare di opportunità finiamo ogni volta per annegare.
Accidenti, una bella sfilza di di bicchieri per tre quarti vuoti.
Siamo solo Buzz Lightyear
Abbiate (abbiamo) un po’ di pazienza. Siamo qui da poco e da un nulla abbiamo imparato a parlare. Finiamola di pensare che siamo tutta questa gran cosa.
Un professore di creative writing diceva ai suoi alunni: “Ci vuole tempo. Rispetta il processo. Fai il lavoro che devi fare. Scrivi la tua storia. Quando hai finito scrivila di nuovo. Poi vai a lavare i piatti”.
Penso che la cosa migliore sia chiudere il cerchio e finire dove abbiamo cominciato: ricordiamoci di metterci in discussione ogni giorno, e di lasciare che i fatti rimodellino ogni giorno le nostre opinioni. Non siamo perfetti, non siamo definitivi, non raggiungiamo a malapena la sufficienza. Siamo molto veloci, certo (siamo molto bravi), ma attenzione a non fare come il coyote della Warner, perché oltre la curva c’è il classico dirupo.
Quindi fai il tuo lavoro. Lava i piatti. Vai a dormire. Domani è un altro viaggio. Ti svegli, guardi com’è il tempo, e decidi come vestirti. Quindi fai di nuovo il tuo lavoro e fallisci di nuovo. E lavi i piatti di nuovo.
Nel primo Toy Story, Buzz Lightyear era convinto di essere un superoe spaziale, di saper volare, di possedere armi micidiali. Woody lo sfida a dimostrarlo. Buzz si lancia, rimbalza su una palla, ruota appeso al lampadario, e dopo qualche altra piroetta atterra di nuovo di fronte ai compagni.
Woody dice: “Questo non si chiama volare, si chiama cadere con stile”.
Siamo anche noi convinti di saper volare, ma tutto quello a cui possiamo aspirare è di “fallire con stile”. E in definitiva non credo sia male, come obiettivo da darci, se vi guardate un po’ in giro.